Ti sei mai chiesto cosa significhi davvero essere pubblicati?
Per molti musicisti è un traguardo, quasi un marchio di qualità . Ma dietro questa parola, “pubblicazione”, si nascondono pratiche molto diverse.
📌 L’editore che investe
In linea di principio la pubblicazione dovrebbe funzionare così:
- il compositore scrive un brano;
- l’editore, se lo ritiene valido e vendibile, decide di investirci sopra;
- si occupa delle spese di incisione, della grafica, della stampa, della distribuzione ecc.;
- e infine riconosce al compositore delle royalties sulle vendite.
Insomma: l’editore rischia e il compositore crea.
📌 L’editore che non investe
Purtroppo non sempre va così.
Ci sono casi in cui i costi di incisione (il copista), o di produzione, vengono scaricati direttamente sul compositore.
In altre parole: non è l’editore a investire, ma l’autore stesso a pagare per vedere il proprio brano in catalogo.
E allora la domanda diventa inevitabile: si tratta davvero di una pubblicazione, o piuttosto di una tipografia mascherata da casa editrice?
📌 Il paradosso dei nostri tempi
Questa pratica è ancora più discutibile se pensiamo che oggi:
- le demo audio nelle case editrici di un certo spessore vengono ancora registrate con bande o orchestre di professionisti, con costi elevati ma anche con un grande ritorno di qualità e credibilità ;
- allo stesso tempo, con una spesa minima, si possono ottenere suoni campionati decenti che danno un’idea verosimile del brano; alcuni editori scelgono questa strada, risparmiando ulteriormente;
- la stampa viene ormai gestita internamente dagli stessi editori: non c’è più bisogno di appoggiarsi a copisterie esterne né di affrontare tirature obbligate. Con le macchine digitali moderne, compatte e veloci, è possibile stampare e rilegare automaticamente anche una singola copia in pochi minuti.
Il risultato? In certi casi il rischio imprenditoriale dell’editore è praticamente azzerato.
📌 Fuori dall’Italia
All’estero, soprattutto nel mondo anglosassone, la logica è molto più netta:
- se un brano non è ritenuto vendibile, semplicemente non viene pubblicato;
- se viene pubblicato, allora l’editore si fa carico di tutto.
In questo modo la pubblicazione mantiene un valore reale: è la prova che qualcuno ha creduto abbastanza nel tuo lavoro da investirci.
📌 Una riflessione
Quindi le case editrici che pubblicano brani non troppo “vendibili” — magari perché molto elaborati e difficili, seppur di indubbia qualità — ma lo fanno a spese del compositore, in realtà si fanno solo “belle”: vogliono dimostrare che investono anche su compositori emergenti e brani di livello.
Ma è solo apparenza. Così facendo finiscono per denigrare sia il mondo editoriale che i compositori stessi.
E allora la domanda è inevitabile: ha più valore una pubblicazione di grado 2, ma interamente curata da un editore serio, oppure una pubblicazione di grado 6 che è stata pagata in buona parte dal compositore stesso?
Nel mondo anglosassone, chissà quanti brani importanti sono rimasti nel cassetto proprio perché non trovavano un editore disposto a investire. Ma questo è il punto: un catalogo non è più “ricco” solo perché è pieno di titoli. Anzi: in Italia vediamo immensi cataloghi che, in realtà , sono enormi cassetti chiusi. Brani pubblicati… ma che non vengono venduti né eseguiti.
📌 Conclusione
Forse allora la vera domanda non è “quanti titoli hai pubblicato?”, ma quanto valgono davvero quelle pubblicazioni.
Un catalogo serio si riconosce non solo dal numero di pubblicazioni, ma dalla sostanza degli investimenti e dalla vita che i brani trovano nelle esecuzioni reali.
👉 Perché alla fine la musica non si misura in copertine stampate, ma in quante volte quelle note risuonano davvero.
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